Le coincidenze sono davvero incredibili: da mesi avevo previsto questo capitolo con questo titolo, quale omaggio ad una delle serie horror che più mi hanno segnato da piccolo, eppure, oggi che lo pubblico, prende anche il significato di una dedica al maestro Wes Craven, regista che ci ha regalato incubi e deliri per decenni e che ieri si è spento, sconfitto da un male incurabile. Sempre più, la realtà supera la fantasia... in questo caso, con la sua terribile e terrificante verità. A te, Wes.
29
Dal profondo della notte
Mio caro Illentar,
ho perso il conto di tutte le volte in cui avrei voluto scriverti e, invece, non ho avuto la forza, il tempo e, talvolta, il cuore di farlo, ma oggi mi sono imposto di non trovare scuse e così, ritagliato un angolo tranquillo in questo campo caotico e rumoroso, mi ritrovo a gambe incrociate, carta, pennino e calamaio a pensarti ed a buttar giù queste poche righe.
Vorrei dirti che sono sulla via del ritorno, in effetti, ultima mia missiva risale al giorno successivo la grande battaglia di Naxxramas, così probabilmente potrei averti illuso che stessi tornando… mi scuso tanto, Illentar, ma non è così. Ogni giorno che passa, invece, ci avviciniamo alla battaglia finale, lo scontro tra l’esercito più possente che mai Azeroth abbia visto nell’era attuale contro il nemico più formidabile mai esistito. Non si tratta di Arthas, quanto di chi alberga nel suo corpo.
E’ complicato, ma prometto che al mio ritorno ti spiegherò tutto.
Spero che tu stia seguendo i consigli di Gaia: sei grande, oramai, ma Gaia è pur sempre la tua tutrice, in assenza mia e di Silvèr e, a proposito di lei, al nostro ritorno, dovremo parlare di alcune cose che, sono certo, comprenderai. Non temere, piccolo Illentar, nulla di quanto porto con me potrebbe mai in alcun modo nuocerti, quindi sappi che tutto questo, tutto quanto discuteremo al caldo fuoco di casa nostra a Goldshire, non potrà che essere un dono per te.
Tornando a me, invece, saperti al caldo mi da forza e contribuisce a darmi l’energia per superare il gelo che, giorno dopo giorno, lega dopo lega, aumenta con il nostro avvicinarci alla fortezza dei ghiacci.
Nonostante questa missiva venga teleportata magicamente, lo zio Lòre mi ha spiegato che ci vorranno giorni, settimane forse, prima che si materializzi nella cassetta della posta di casa, quindi con molta probabilità, quando mi leggerai, la nostra missione sarà conclusa, in un modo o nell’altro.
Ho le dita intorpidite, non sono abituato a queste temperature così, scusami, se dovessi commettere qualche errore.
Ho perso il filo del discorso. E’ passato già qualche minuto, del resto ho dovuto riscaldarmi le dita, mi chiedo come potrò lanciare i miei incantesimi in queste condizioni… mi sto lagnando e non è da me, grazie per aiutarmi a ritrovare la via! Sei sempre nel mio cuore e sei sempre con me; senza di te, tutto sarebbe perduto!
Io, lo zio Lòre, lo zio Zaltar, Silver, Roredrix e tutti gli altri, stiamo bene, marciamo con i coraggiosi combattenti di ogni stendardo, credo e provenienza verso lo scontro finale. E’ dura, Illentar, dura marciare nella neve e contro il ghiaccio e il freddo e il vento e la neve… potrei cancellare la ripetizione, ma sporcherei il foglio e visto quanta neve vi sia da queste parti, la lascerò come rafforzativo!
Ho la testa altrove, perdonami, volevo che questo momento fosse solo nostro, nostro e di nessun altro, lontano, almeno col pensiero, da quanto mi circonda e, a dire il vero, mi preoccupa più del freddo, più della fatica e, persino, più dello scontro che si avvicina. A combattere sono preparato, a marciare oramai più che abituato ed il freddo, non lo posso vincere, ma lo riesco, almeno per il momento, a sopportare. Quello che, invero, mi strappa il sonno e non riesco ad allontanare da me, è una sensazione di… sporcizia, di fastidio, no, di disagio, ecco, di disagio sì, una sensazione che non riesco a togliermi di dosso. Inizialmente avevo deciso di non parlartene, ma persino ora, mentre qui, da solo, sono a scriverti, mi accorgo di essere altrove con la testa e la causa è questo malessere che non riesco a fronteggiare. Come dicevo, sono preparato a quanto sopra, ma non sono pronto, non ho strumenti, per fronteggiare un nemico invisibile e terribile che serpeggia, a quanto pare, tra le fila del nostro esercito e che, negli ultimi giorni, ha già contagiato una decina di soldati. Orchi, elfi, un paio di gnomi, persino un nano. Questo per quanto i nostri curatori sono al corrente, ma temo che i numeri siano più importanti. Combattere un nemico formidabile fa paura, Illentar, ma sai che puoi vincere, se studierai il campo da battaglia, se lo coglierai in fallo o se avrai semplicemente fortuna; ma una epidemia… non voglio neppure pensarci. Sarebbe incredibile: essere sconfitti prima ancora di arrivare a destinazione.
Perdonami se ti ho fatto carico anche di questo, ma non potevo tacerlo, non oltre. E comunque, come dicevo, probabilmente sarò già sulla via del ritorno quando leggerai questa missiva…
Sceiren alzò il pennino dal foglio improvvisamente colto da una tristezza profonda: “se invece così non fosse…” questo stava per aggiungere. Poteva concludere in questo modo? Non era pensabile.
…quindi facciamo un patto: metti in un cassetto questa lettera e quando ci vedremo mi chiederai come è finita! Come sempre sto ingigantendo quanto devo approfondire, tua nonna me lo diceva sempre.
Ti adoro, piccolo mio, e quando ti riabbraccerò avrai la storia più gloriosa e straordinaria da raccontare ai tuoi nipoti! Sarai orgoglioso di me, come io, da sempre, lo sono dite.
Sigillò la lettera, attivò il marchingegno costruito da Lòre e di chiara matrice gnomica, quindi imbucò la lettera che scomparve in una nuvola azzurrina.
Non attese neppure che la molla della cassetta da lettere portatile si ritraesse su se stessa che già era a lavoro ad una nuova lettera.
Mio caro Illentar,
non sono certo di cosa ci riserverà il domani, ma posso dirti oggi che sei qui con me e con me sarai fino alla fine.
Non credo che riuscirò a tornare, nonostante quello che ti ho promesso, nonostante quello che vorrei e così intendo scriverti queste poche righe in modo che tu sappia che non ho combattuto se non che per te e che sono orgoglioso di chi tu stai diventando. Come io di te, tu sii orgoglioso di me, non come nipote, ma come potrebbe un figlio.
E continuò dipanando un segreto che si teneva dentro da tanto, troppo tempo.
* * *
La sacerdotessa era bagnata fradicia, nonostante il mantello. Passo dopo passo, esausta, incurante del nevischio che continuava a bagnarla, raggiunse la sua tenda, sbatté un paio di volta gli stivali al suolo per staccare quanta più neve e fango potesse, quindi si voltò verso la sua guardia del corpo.
- Grazie, ma da qui credo di potermela cavare. – lo prese in giro prima di starnutire.
- Sicura? Non si sa mai… - rispose sorridendo il guerriero porgendole un fazzoletto.
- E questo? Da dove uscirebbe? –
Roredrix alzò gli occhi al cielo grigio, poi scosse il capo due o tre volte, come per cercare di svegliarsi.
- Ho sempre uno di questi con me. Non hai mai sopportato di essere bagnata. – e dette un paio di colpetti alla sacca di pelle appena visibile tra armatura e mantello.
- Non lo ricordavo. – disse lei.
- Lo farai. – sorrise. Roredrix si sentì il cuore rimbalzare nell’armatura e per un attimo temette che i tonfi che sentiva nelle tempie fossero avvertiti anche da Lùce. Si era perso nei rivoli d’acqua che scorrevano lungo le curve del suo viso.
- Tutto bene, Rore?, disse lei avvicinandosi, Sembri sul punto di svenire. –
Il guerriero scosse il capo, quindi disse che era solo un po’ stanco.
- Va dentro, o ti prenderai un malanno e di certo è la cosa che, in questo periodo, nessuno vorrebbe prendersi mai… la situazione è tanto grave? – chiese infine accigliato.
La sacerdotessa si scurì pericolosamente in volto.
- Sì. –
Roredrix si portò le mani sui fianchi e si sgranchì la schiena. L’armatura cigolò.
- Ne verrete a capo? –
Lùce aprì la bocca, stava per dire qualcosa, ma la richiuse, infine, sparendo nella sua tenda, si congedò:
- Buona notte Roredrix, a più tardi. –
* * *
Ilaria seguì dal suo giaciglio l’amica togliersi gli abiti bagnati di dosso e mettersi delle vesti asciutte. Non disse nulla, stava pregando; poi, quando la consorella crollò sul proprio giaciglio, si mise seduta ed accarezzandosi la treccia la chiamò dolcemente.
- Che la luce ti accompagni, sorella. –
- Che la luce accompagni te, sorella mia. – rispose questa di rimando.
- Pomeriggio duro? – chiese Ilaria iniziando a prepararsi.
Lùce si voltò stropicciandosi gli occhi stanchi. – Non più di ieri, ma sicuramente meno di domani. Abbiamo avuto altri dieci contagi, di cui quattro indiretti, e cinque malati sono passati al secondo stadio. –
Ilaria si sentì gelare, ma non lo diede a vedere.
- E sorella Clarisian? Come mai non è ancora rientrata? –
- E’ stata chiamata da un paio di soldati, immagino Masters voglia un aggiornamento, anche se dubito che troverà piacevoli le notizie che riceverà. –
- Non temere, il Creatore ci guiderà. – disse stanca Ilaria.
- Non temo nulla, Ilaria, non io, ma se continua così, dovremo prendere provvedimenti drastici per fronteggiare l’epidemia. –
- Poche decine di malati non rappresentano una epidemia, Lùce. –
- Poche decine di malati oggi… - sottolineò la sacerdotessa.
- Invece, sei stata messa sotto scorta? – cambiò argomento, non voleva pensare alle implicazioni ed al disastro se il morbo fosse esploso davvero.
Lùce si rannicchiò sotto la coperta ed annuì.
Ilaria si voltò a guardarla e giurò di averla vista sorridere.
- Beh, ho deciso che mi muoverò da sola. Non ho bisogno di una guardia del corpo, mai avuto bisogno di un paladino in passato, figuriamoci adesso. –
- Dillo ad Erebus… - la canzonò Lùce.
- Glielo dirò. Sai chi mi aspetta? –
- Dyanor, credo. –
- Dyanor… -
- Sì, non lo seminerai tanto facilmente. – rise Lùce.
Ilaria si voltò, accarezzò nuovamente la guancia della consorella e si raccomandò che riposasse, quindi si avvolse nel mantello, sollevò il cappuccio ed uscì. Come previsto, la spia dei Templari Neri attendeva silenziosa sotto il nevischio battente.
- Sorella, ben trovata. –
- Bentrovata, pronta alla nottata? – chiese indicando la via.
- Certo, ma non è necessario che sia pronto anche tu. Posso cavarmela, davvero. – disse Ilaria con veemenza.
Dyanor annuì, quindi ridendo rispose: - Non ho alcun dubbio che sapresti darmi il ben servito se volessi, ma ho degli ordini e non vorrai che Erebus e Selune mi degradassero pochi giorni dopo la promozione! –
Ilaria annuì: - Ci parlerò io, non temere. –
- Temo, temo. Andiamo, di questi tempi e con quello che si sente in giro, è meglio che sia al tuo fianco. – disse serio.
La sacerdotessa non ebbe nulla da ribattere e così, in silenzio, si incamminò verso il blocco di tende adibite per fronteggiare l’emergenza.
Non appena fu abbastanza vicina, Ilaria venne raggiunta dai gemiti acuti dei malati di primo stadio. Era il primo blocco di tende. I malati erano stati divisi in base alla criticità ed allo stato di avanzamento del male per evitare meglio studiare il progredire dell’infezione. Il primo blocco di tende ospitava i malati appena contagiati, definiti di primo stadio. Più avanti vi erano i malati di secondo stadio ed infine, isolati sotto scorta, le tende degli infetti di terzo stadio, quello terminale.
Il via vai di guaritori, sacerdoti, paladini, druidi e sciamani era continuo, intervallato dal passaggio di guardie pesantemente armate che squadravano ciascuno di essi per timore che vi fossero curiosi.
La sacerdotessa e la sua guardia attraversarono il primo blocco di tende. Dyanor era al suo fianco e lanciava occhiate in ogni direzione. Erebus era stato categorico: i malati, soprattutto quelli negli ultimi stadi, erano pericolosi. Le informazioni che aveva avuto erano precise e per questo aveva richiesto una scorta e non era il solo. Molti paladini non erano certo nell’area medica per fornire servigi ai malati, quanto a chi si prendeva cura di loro.
La spia si frappose un paio di volte tra Ilaria e alcuni passanti, non si fidava di nessuno. Mai. Per quello era ancora vivo e, soprattutto in quella situazione, non avrebbe corso alcun rischio inutile.
Superarono la penultima tenda, quando, sbirciando nell’ultima del primo blocco, Dyanor vide una sua vecchia conoscenza.
- Ilaria, aspetta. –
- Problemi? – chiese con una punta di preoccupazione la sacerdotessa.
- Lì, mi sembra di conoscere quel draeneo. –
Ilaria superò Dyanor e entrò, seguito da quest’ultimo, nella tenda alla sua destra.
Quattro guaritori nella stanza, due per postazione, due per malato, uno dei quattro era si voltò e riconoscendo Dyanor, lo salutò con pacata educazione.
- Salute a te. – disse con la voce ancestrale tipica della sua specie. I suoi occhi lucenti erano spenti, affaticati.
- Rexyna, giusto? – disse Dyanor.
- Ricordi il mio nome… - rispose questi, poi con un cenno del capo salutò con reverenza Ilaria.
- Sorella, perdona la mia scortesia, che la luce ti accompagni. –
- Che la luce accompagni te. Come sta la sua assistita? – chiese avvicinandosi all’elfa che ansimava per i brividi.
Rexyna indurì la mascella.
- La febbre sta salendo, come per gli altri. E’ stata contagiata per via indiretta questa mattina, mentre dava assistenza nel settore due. –
Ilaria si accigliò.
- Come? – chiese.
I bardagli di Rexyna ondeggiarono e i suoi occhi ebbero un lampo.
- Eravamo assegnati ad un malato al secondo stadio. Secondo le nostre stime avrebbe dovuto presentare i sintomi dello stadio finale solo nelle prossime quarantotto ore, parlava correttamente, frasi di senso compiuto e non deambulava, tutto lasciava presagire un decorso lento, ma improvvisamente ha avuto degli spasmi ed una reazione inaspettata e violenta. Non abbiamo fatto in tempo a prepararci: l’elfo ha iniziato a urlare e dimenarsi ed ha provato a lasciare. Uranias, per impedire che fuggisse, ha cambiato forma e come pantera gli è piombato sulla schiena.-
- Lo ha immobilizzato, quindi, e poi? – chiede Dyanor.
- No, lo ha solo fatto cadere. L’elfo si è voltato e ha colpito sul fianco Uranias con un calcio, allontanandola. Crediamo che l’infezione sia passata dalle unghie dei piedi, rotte nell’impatto, conficcandosi nel suo polpaccio da pantera. Un’ora dopo i primi sintomi. –
- E’ in quarantena l’elfo adesso? –
Rexyna fissò Ilaria con durezza.
- No, è morto poco dopo. Il cuore non ha retto. -
* * *
Ilaria e la sua guardia del corpo lasciarono il draeneo e l’elfa per dirigersi al secondo blocco. La sacerdotessa era stata assegnata ad un paziente in terzo stadio, quindi doveva superare il punto di controllo presente in ogni settore, prima di raggiungere il proprio assistito. I controlli erano sempre più serrati: quando raggiunsero le guardie che delimitavano l’area destinata ai malati in avanzato stato di contagio, le domande furono più pressanti così come la diffidenza, quasi il sospetto.
Superate le quattro guardie, Ilaria proseguì spedita attraverso il sentiero ricavato nel fango e battuto fin troppo da guaritrici e curatori.
Dyanor, che per la prima volta si trovava in quelle aree, lanciò occhiate come suo solito nelle tende che superava e rimase colpito da quello che vide: i pazienti parlavano quasi tutti, anzi, sembrava che le guaritrici insistessero affinchè non si quietassero mai. Il chiacchiericcio era continuo e tutti i pazienti che riuscì a vedere, nessuno escluso, erano sdraiati supini, immobili.
- Sembra che qui stiano meglio paradossalmente… - si lasciò sfuggire.
Ilaria lo fulminò con lo sguardo prima di rispondere:
- La malattia qui ha praticamente già vinto: li facciamo parlare incessantemente, quasi torturandoli a farlo, perché il primo sintomo dell’ultimo stadio è l’ingrossamento della faringe e l’impossibilità a parlare di fatto. Quando questo accade, spesso, i pazienti vengono scossi da fremiti fortissimi che possono durare anche dei giorni… e talvolta diventano estremamente violenti, forti e rapidi… -
- Sì, questo mi era già chiaro, senza contare che per scagliare via con un calcio un druido in forma di pantera ci vuole ben più della forza normale di un elfo… -
- Appunto. –
- Ecco l’ultimo controllo. Mi raccomando, fai parlare me. -
Le guardie che presidiavano il blocco del terzo stadio erano in armatura a piastre completa. I volti celati e non riconoscibili, armati fino ai denti e tutt’altro che amichevoli.
Ilaria faticò non poco, come al solito, per ottenere il visto, nonostante avesse ordini della reggente del campo che parlavano più che chiaro; ma ancora di più fu complicato spiegare la presenza di Dyanor. Alla fine, la spuntò e superarono il posto di blocco.
Le tende erano distanti una cinquantina di metri dal posto di blocco una serie di carri delimitava due lati del perimetro, quelle interne, verso il campo. Guardie armate in gruppi di tre si alternavano a guaritrici curati e ben vestiti oltre a curatori dalle insegne delle più disparate confraternite. Erano tutti professionisti, non vi erano curatori improvvisati nel settore.
Poi le grida. Inumane, prolungate, un susseguirsi di urla gutturali e cupe, bestiali, profonde, che si rincorrevano accavallandosi l’un l’altra, mano a mano che una tenda passava e sopraggiungeva la successiva. Ilaria era silenziosa, ma le labbra che si muovevano non sfuggirono a Dyanor che, istintivamente, mentre le mani si allungavano sui pugnali, ne lesse il silenzioso messaggio. Ilaria pregava.
Raggiunta infine la destinazione, Ilaria entrò senza dir nulla.
Il suo paziente era legato mani e piedi a delle tavole inchiodate tra loro a croce. Si dimenava come un ossesso in preda a spasmi incontrollabili. Come gli altri, farfugliava senza senso. Aveva la gola gonfia, almeno il doppio del normale e gli occhi iniettati di sangue. Le vene, su braccia, gambe, collo e fronte erano pronunciate e i capillari nell’occhio sinistro esplosi. Il petto e la gamba sinistra presentavano i caratteristici ematomi circolari, tipici del contagio diretto. Il primo stadio della malattia.
Accanto a lui una paladina dagli occhi incavati, provata. Non appena Ilaria e Dyanor entrarono nella tenda, si alzò, benedì il paziente, e scambiate un paio di parole, se ne andò.
Ilaria si chinò sorridendo sul soldato.
Dyanor ne valutò stazza e vestiario, osservando anche quanto accuratamente ripiegato poco distante dal suo giaciglio, se così lo si poteva definire: non apparteneva a nessuna confraternita, era un soldato, uno dei tanti arruolati dalle capitali. Probabilmente del Sud. Esile di corporatura, non lo avrebbe impensierito neppure se fosse stato armato e lui disarmato con le mani legate… eppure Ilaria si teneva a distanza, eppure era legato ad una croce di legno… eppure ne aveva timore.
La sacerdotessa salmodiò una serie di benedizioni, ma non sortì effetto.
Oltre a loro tre, vi era solo un vecchio seduto su uno sgabello, intento a leggere un libro. Incurante del loro arrivo.
Dyanor lo squadrò, sempre tenendo d’occhio Ilaria, infine realizzò e si rese conto che non era l’unico caso, anzi: in ogni tenda nella quale avesse avuto modo di dare un’occhiata dal loro ingresso nel terzo blocco, vi erano quelle presenze contrastanti.
Avvicinandosi all’orecchio di Ilaria, preoccupato, chiese:
- Ilaria, ma cosa ci fa un mago in una tenda infermeria? –
* * *
- Maledizione? Ne siete assolutamente sicuri? –
Il generale Masters incrociò le braccia e fissò con attenzione Clarisian che, con un sorriso appena accennato, sosteneva il suo sguardo indagatore senza problemi.
- Assolutamente sicuri, generale. Abbiamo riscontrato tracce di incantamento già nei pazienti di secondo stadio, ma il sortilegio è assolutamente individuabile in tutti i pazienti di terzo. –
- Quindi si tratta di una maledizione. Scacciatela! – sbottò l’ammiraglio McRonin piantando l’indice sul tavolino rotondo stracarico di rapporti e conteggi.
Clarisian gli regalò uno dei suoi sorrisi più caldi.
- Ammiraglio: il Creatore ancora non mi ha donato tanto potere, ma i nostri esperti di magia ed evocatori più capaci sono all’opera in tal senso, seppure, la maledizione, non è che un veicolo. E’ un’infezione vera e propria, catalizzata attraverso l’incanto. –
- State ottenendo dei risultati? – chiese Masters.
Clarisian si limitò a sorridere nuovamente.
- Capisco, ma non possiamo attendere oltre. – tagliò corto il generale.
- Generale, esporre le truppe al contagio potrebbe compromettere la missione. – disse glaciale la sacerdotessa. – Mi occorre tempo e se sono certa che il Creatore ci mostrerà la via, che sia la cura che estirperà il morbo o la fiamma che ci libererà da esso. –
- Fiamma!? – balbettà McRonin.
- Avete una settimana, poi in un modo o nell’altro, riprenderemo la strada di Icecrown. –
Clarisian fece un inchino e lasciò la tenda, seguita dall’ammiraglio McRonin.
* * *
Il paffuto ufficiale non si diresse ai suoi alloggi e neppure al centro di comando del generale, invece, avvolto in un mantello piuttosto semplice, privo di insegne, per mascherare la propria identità, si perse nella folla, fino a raggiungere una serie di tende presidiate da non-morti.
Le guardie non gli fecero domande e non appena lo videro, lo fecero passare.
L’ammiraglio, lanciata un’ultima occhiata alle proprie spalle per essere certo di non essere stato seguito o che nessuno lo avesse riconosciuto, superò il picchetto e raggiunse il luogo dell’incontro.
- Silenzioso come una faina. – sibilò tra i colpi di tosse l’evocatore, aggrappato più che mai al contorto bastone.
- Stai imparando l’umorismo invece che concentrarti sulle ricerche, Luther? –
Il macilento non-morto ghignò, provocando il disgusto dell’ammiraglio.
- Seguo gli esperimento personalmente. –
L’ammiraglio si umettò le labbra tremanti.
- Quanti… soggetti ad oggi? –
Il non-morto lo fissò malvagio: - Soggetti?! Cavie volevi dire, non trincerarti dietro a inutili parole vuote. Cinque, dieci, venti… ha importanza? Conta solo il risultato. Cosa accadrebbe se il morbo si diffondesse? –
- Sarebbe un disastro… Cosa avete scoperto? –
- La sacerdotessa? –
- Come scusa? –
- Non dovevi incontrarti con lei, ha fatto progressi? – si informò l’evocatore.
- Sostiene sia una maledizione o che comunque un sortilegio acceleri la malattia o qualcosa del genere. –
Luther studiò l’ammiraglio per qualche attimo.
- E tu invece? – lo incalzò.
Il non-morto si incupì e zoppicando si allontanò di qualche passo.
- E’ un sortilegio, sì, un sortilegio che veicola l’infezione. –
- Veicola, esatto, mi pare abbia detto proprio così. Cos’altro? Non dirmi che non sei neppure più avanti di loro nonostante i tuoi mezzi! – si spazientì.
Luther ghignò nuovamente, quindi allungò l’indice ossuto verso l’alto.
- No, non direi. –
- Allora?! – chiese sempre più impaziente McRonin avvicinandosi al non-morto.
- Sappiamo perché le cavie muoiono. Avranno sicuramente notato le vene ingrossarsi. Le nostre fonti riportano che motivino il tutto con un aumento della pressione. Non è del tutto esatto. –
- Continua. –
- Quando una cavia entra nel terzo stadio, il cuore e altri organi si ingrossano e aumentano esponenzialmente la propria attività. Per questo le vene si gonfiano fino a scoppiare. Inoltre, su due orchi al secondo stadio abbiamo riscontrato un irrigidimento delle fasce muscolari, come dopo uno sforzo, ma la verità è esattamente l’opposto: credo che le vertigini e il dolore alle articolazioni ed ai muscoli che i soggetti hanno nel secondo stadio sia legato ad un ingrossamento progressivo di muscoli e nervi. –
- Bene, capisco… non ti chiedo neppure come sei arrivato a queste determinazioni… e la cura? Avete trovato una cura? –
- Non ancora, no. Mi serve altro tempo. –
- Altro tempo in cui rischio di essere scoperto, non potrò insabbiare la cosa ancora per molto. –
L’evocatore fissò aggressivo il suo interlocutore e dopo aver tossito un paio di volte sibilò:
- Mi darai quello che mi occorre. –
McRonin si sentì gelare la schiena.
- Pare una minaccia… -
Luther non rispose.
* * *
- Sai cosa mi manca di più? Il cielo stellato. –
Shira alzò gli occhi al cielo senza stelle sopra la sua testa. Nuvole temporalesche oscuravano il cielo e il nevischio, cessato da una mezz’ora, aveva tutta l’aria di voler riprendere a cadere.
- Il Creatore ce le mostrerà nuovamente, se ne saremo degne. – rispose Clarisian.
Le due si stavano dirigendo al primo blocco, visto che il turno sacerdotessa era concluso da oltre un’ora, anche se l’incontro con Masters lo aveva prolungato di parecchio, quando due soldati, evidentemente agitati, le raggiunsero.
- Sorella Clarisian, deve seguirci, subito! –
- Nessuno andrà da nessuna parte. – li redarguì minacciosa Shira, mentre sfoderava la spada.
- Non capite! Ci hanno detto di riferirle che hanno portato un soggetto al terzo stadio poco fa! Deve venire subito! –
Clarisian sorrise dolcemente.
- Non è il mio turno e vi sono ottime curatrici in questo momento nel blocco… -
- NO! Deve venire!: è un non-morto! -
* * *
Non era possibile. I non-morti non si ammalavano e soprattutto non avevano sangue pulsante nelle vene. Non era semplicemente possibile. Clarisian e Shira, correndo, seguivano le guardie nel dedalo di tende e sentieri fino a quando acuti e stridenti guaiti raccapriccianti non le raggiunsero. Shira era ancora armata.
La tenda era defilata, la più isolata del blocco ed era circondata dalla guarnigione.
- E’ in fase terminale? – chiese ad un guaritore che, con gli occhi sbarrati, tremante, non osava mettere piede nella tenda.
- Sì. E’ arrivato così. –
Ombre enormi si stagliavano sui lati della tenda, di orco probabilmente. Clarisian strinse il proprio simbolo sacro, quindi annuì a Shira e, seguita da quest’ultima, entrò.
Due massicci orchi coprivano quasi completamente l’esile non-morto, cercando di immobilizzarlo. Il primo gli bloccava le braccia ossute, una delle quali quasi senza carne, il secondo il ventre e le gambe.
La creatura era spaventosa: disarticolata scattava a destra e sinistra, in avanti e indietro, incurante dei tonfi che dava contro il suolo o del crepitio delle ossa che sembravano doversi spezzare da un momento all’altro.
- Cosa facciamo!? – chiese la paladina.
- Benedicilo! – urlò Clarisian.
Shira puntò la spada verso i tre che lottavano e il pavimento iniziò a brillare d’oro e argento.
Il non-morto, spalancò le fauci allungando il collo in modo impossibile e terribile, azzannò l’orco che tentava di immobilizzargli le braccia alla giugulare, strappandogli carotide e pelle. Il sangue lo inondò.
Libero dalla presa, invece di scalciare, si mise seduto in un sinistro scricchiolare di ossa, afferrò per la testa il secondo orco e, con una forza incredibile, lo scaraventò per aria, rompendogli il collo. Shira si gettò su Clarisian per proteggerla, mentre la tenda veniva letteralmente strappata dal suolo e trascinata tra per aria dal corpo dell’orco scagliato via.
Il non-morto si abbassò a quattro zampe, leccando il sangue da terra, sotto gli occhi sbarrati delle due donne.
Clarisian riconobbe i segni circolari su braccia e collo della creatura. Era stato senza dubbio contagiato in modo diretto.
I soldati, superato il disorientamento iniziale, si erano messi in formazione e avanzavano circondandoli, ma la creatura non attese che fossero a portata: con un balzo si avventò sui primi due schiacciandoli al suolo e frantumandone lo sterno, come se non avessero un’armatura a proteggerli… quindi sempre nuovamente in piedi, corse verso il bosco vicino, perdendosi in esso.
* * *
Clarisian e numerosi soldati si lanciarono all’inseguimento: nei sei giorni di crisi, solo altri due casi si erano mostrati così violenti, superando lo shock culminante del terzo stadio e, poi, era un non-morto, il paziente zero della specie. Oltre al pericolo di contagio, era fondamentale raggiungerlo e studiarlo.
Rami spezzati, sangue e persino brandelli di carne erano una pista che persino in cieco avrebbe saputo seguire.
Gli inseguitori si addentravano nella vegetazione pronti allo scontro, guardandosi intorno per timore di essere loro stessi preda anziché predatore e infine, in una piccola radura, lo videro. Ritto come un fuso. Immobile.
Il comandante Frey fece cenno di far silenzio ai suoi e di procedere a ventaglio. Il non-morto si voltò verso di loro, lentamente, quindi esplose una nuvola di sangue putrido e cadde al suolo. Era l’epilogo del terzo stadio, Clarisian ne aveva visti altri, ma non immaginava potesse avvenire anche ad un non-morto… come non poteva immaginare che l’orrore non fosse finito. Un’ombra scura balzò da sopra le loro teste piombando sul non-morto che ancora si muoveva nella pozza di sangue scuro e iniziò a banchettare. La bestia squarciava le sue carni, scagliava le ossa qua e là in modo disordinato, per avventarsi su di esse subito dopo, quindi iniziò a succhiarne il sangue. Furono attimi che sembrarono secoli.
Infine, come era arrivata, la bestia scomparve nella vegetazione.